L’immortale Gino De Dominicis per Italo Tomassoni

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L’immortale Gino De Dominicis per Italo Tomassoni

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IL MORTO CHE NON PARLA *
Italo Tomassoni

Dal catalogo della mostra “Ancona per Gino De Dominicis. CALAMITA COSMICA”, Ancona, Mole Vanvitelliana, 2005

 

Non si conosce la genesi di “Calamita cosmica”. Questo straordinario com-plesso semantico ed esoterico, creato non si sa quando né dove, è evento da “mattino dei maghi”.
Alla fine degli anni ottanta, l’opera emerge per la prima volta dalle tenebre sotto le arcate del “Magazin” di Grenoble come un fenomeno primordiale.
Sul fascino del sublime prevale in chi guarda lo sgomento alieno del tremen-dum. La paura vince l’ammirazione. Orror. Orror sacri. Numinoso.
Occultata successivamente nei depositi di un mecenate, l’opera si ricompone nel Cortile regale di Capodimonte e da lì si inabissa, smembrata, prima che un convoglio di TIR la riporti definitivamente in una terra cognita.
Sotto il cielo di Ancona, il magnetismo del monstrum torna a vibrare nell’illimitato, paralizzando l’immaginazione.
Sopravvissuta a tutto, non sopravviveremo al suo mistero.

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Senza scampo la commozione suscitata da questo che è uno dei testi più im-pressionanti ed ermetici dell’arte del XX° secolo, frutto di un genio insupera-bile che testimonia la percezione dell’assoluto e chiude il secondo millennio con un sigillo rovente. L’arte del XX° secolo ne conserverà il ricordo con la piena coscienza di non reggerne la portata. Di ben altra magnitudo infatti è, spiritualmente e linguisticamente parlando, l’eredità che Gino De Dominicis lascia alla storia del suo tempo. Vertiginoso scrutatore di profondità abissali, la costituzione e la struttura del suo linguaggio restano irraggiungibili dal lessico della modernità e dalle mode “concettuali”, “povere”, di “comportamento” o di attraversamento delle avanguardie con cui il Novecento ha concluso il suo ciclo.
Della modernità Gino De Domincis ha subìto il senso del declino. Poiché, co-me altri “inattuali”, non credeva nel progresso che considerava un percorso di decadenza (Età dell’Oro, Età del Ferro e, ora, Età del Kali Yuga), le sue opere sono dominate dalla ossessione dell’immortalità del corpo legata a Gilgamesh e al mito della civiltà sumera. In “Calamita Cosmica”, il riferimento mesopota-mico sprofonda dentro una antropologia dove l’ordine anatomico dello spazio corporale evoca il tempo del sovrumano. Cupa e impassibile, la perfezione formale dell’opera è attraversata dalle onde magnetiche di cui è strumento e protagonista. Al centro del campo indotto dall’asta puntata sulla falange distale della mano destra (obelisco, arnese apotropaico o gnomone, segno di raccordo tra microcosmo e macrocosmo, di sintonia interplanetaria e di collegamento tra gli stati dell’essere), il colosso celebra l’eroismo titanico di chi si è avventura-to in spazi inaccessibili al dominio dell’esplorazione tecnologica.
Nell’ordine della sfida all’immortalità, questa terribile icona si spinge ancora più oltre le frontiere che Gino de Domincis sondò nel 1969 con la nigredo de “Il tempo, lo sbaglio, lo spazio”, iniziale mossa dell’incessante gioco gnostico condotto dall’artista tra soma (corpo) e sema (segno) sullo scenario del gran teatro della morte.
Il messaggio trasmesso da quei resti umani stava ancora dentro il memento barocco della caducità della vita messa in guardia dall’illusione moderna dell’epistemologia e dallo “sbaglio” della scienza e della tecnica. Comunicava inoltre la fatale impossibilità dell’uomo di assoggettare le categorie dello spa-zio e del tempo delle quali, senza l’immortalità fisica, era impossibile inter-rompere l’andamento distruttivo.
Differente lo scenario della “Calamita Cosmica”: anzitutto l’essere non è terre-stre e denuncia un’età che ha superato il secondo principio della termodinami-ca e dunque ha liquidato l’entropia. Sopravvissuto all’interminabile viaggio dalle sue nere orbite; e pescando su uno scibile che travalica il problema antro-pologico della finitezza, attinge alla dismisura, alla notte dei tempi e alle sim-bologie fisiche e metafisiche di un cosmo popolato da altri esseri.
A proposito di Cosmos Jean Clair , (che, significativamente, mette un passo di Giacomo Leopardi come esergo al suo saggio Da Humboldt a Hubble), cita il libro di Blanqui L’éternité par les astres dove il rivoluzionario comunardo de-scrive l’allucinazione di universi paralleli nel tempo e nello spazio <<La nostra terra, così come gli altri corpi celesti, è la ripetizione di una combinazione primordiale, che si riproduce sempre eguale e che esiste simultaneamente in miliardi di esemplari identici (…)”>>.
Proiettato sul pianeta da altre dimensioni, anche questo gigantesco Menhir, dall’alto di una ignota morfologia ornitologica forse sopravvissuta a specie estinte vagamente rapportabile a quella umana, ripropone la questione del tempo imponendo in forma plastica il mistero dell’eterno ritorno del medesi-mo, l’esistenza di universi senza inizio né fine, disseminati di altri consimili esseri. La sua finitezza e la sua immobilità si dilatano sul sovrannaturale, tra-smettendo lo smarrimento per un destino che si consuma oltre il tempo della storia.
I piedi, prodigio gotico di ossa a guglie e a pinnacoli dallo spento bagliore; rivolti al cielo insieme all’asta che attira il campo gravitazionale, invitano alla verticalità, annunciando un “altrove” non calpestabile come una pista terrestre. Il contatto con il mondo, entro uno spazio che è naturale e rituale, introduce a un registro che non riguarda più la descrizione formale del reale o la sua rap-presentazione in figura, ma mobilita una totalità che, attraverso la forma sim-bolica incarnata da questo muto macroantropo, risale la corrente delle imma-gini verso la fonte prima, lungo un viaggio iniziatico rischiarato dalla luce dell’Origine.
Non illuda la impietrita immobilità del colosso. Il suo peso non fa tremare la terra, e come il suo sema eccede il tempo, il suo soma destabilizza lo spazio (che ad Ancona coinvolge anche il mare, elemento della vastità, come il cielo disseminato di stelle e altri corpi astrali, ricorrente e fatale in tante opere di G.D.D.) annientando come un’oscura premonizione il canone rinascimentale della “misura d’uomo” e irridendo il presunto possesso dello spazio vantato dalla pittura moderna, con Picasso e il Cubismo in testa.
Nel pieno possesso dell’universo eidetico che nell’opera converte l’idea in forma, con “Calamita Cosmica”, G.D.D. ci introduce a categorie di un pensie-ro che non si esaurisce nei postulati della Lettera dell’Immortalità o nelle lapi-darie certezze delle “interviste” a se stesso consegnate al mondo come Tavole della Legge dell’Arte.
La potenza delle sue idee si fissa nel miracolo delle opere, nessuna esclusa e tutte un unico periplo iniziatico. Nella loro ripetitiva concatenazione si combi-nano logiche e sensi di una liturgia, nella sua essenza, oscura e indecifrabile, della quale questo fantasma bianco è muto e terrificante cerimoniere.

 

 

* L’esposizione dell’opera “Calamita Cosmica” alle Mole Vanvitelliana di Ancona é un evento eccezionale che si produce a meno di un anno dal Convegno di Studi che la città di Ancona ha dedicato alla figura e all’opera di Gino De Dominicis (Ancona per Gino de Dominicis. Univer-sità Politecnica delle Marche, 16 ottobre 2004) in collaborazione con l’Associazione Gino De Dominicis.
In occasione di quel Convegno l’assessore alla cultura professor Luccarini manifestò la volontà forte, sua e delle Istituzioni che avevano promosso il Convegno, di celebrare Gino De Domini-cis nella sua città “con una grande mostra”.
Quella aspirazione si poneva, con tutta evidenza, come un impossibile critico perché tutte le mostre di G.D.D. (ordinate con maniacale precisione esclusivamente dall’artista stesso) si sono rivelate come una nuova sua opera, lui solo disponendo del genio di mettere insieme capolavori articolandoli o come ulteriore contesto di una nuova creazione, o decontestualizzandoli su nuovi imprevedibili sensi.
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“Calamita cosmica” è il titolo “ufficiale” attribuito all’opera da G.D.D. in occasione della prima comparsa in pubblico dell’opera al Museo d’Arte Contemporanea di Grenoble su invito di Adelina Von Fustenberg. Nel linguaggio quotidiano l’opera veniva designata anche con altri titoli: “Grande Scheletro”, “Scheletrone” o “Ventiquattro metri di forme d’oro” quest’ultimo appellativo con chiaro rilevamento della misura dell’opera e allusione al progetto (mai realizza-to) di rivestirla interamente d’oro zecchino. L’opera venne realizzata dall’artista nel più asso-luto segreto ed esposta a sorpresa al Magazin di Grenoble in occasione della grande mostra antologica ordinata in quel museo dal Maestro. Ricomparirà due anni dopo, sola, esposta da G.D.D. nella magnificenza del cortile della Reggia di Capodimonte a Napoli come esempio non solo dalla sua forza creativa ma anche dell’altra prerogativa del suo talento consistente nel presentare un’opera come un universo assoluto che esaurisce in se stessa le ragioni del suo essere.
Questa poteva essere l’unica via percorribile anche ad Ancona per offrire a questa città (la Sua città) la possibilità di testimoniare ancora una volta, e con una “grande mostra”, un legame non immemore con l’artista, riconfermando la vocazione di G.D.D. al radicamento non internazio-nalista dell’arte.
La Mole Vanvitelliana, misura perfetta per la dismisura di quel prodigio, poteva ricollocare così tra ciclo e mare un capolavoro che la Fondazione Cassa di Risparmio di Foligno, nell’ambito dei suoi interventi nel settore dell’arte e della cultura, ha destinato a un definitivo Museo che sarà inaugurato nel 2007.

JEAN CLAIR Cosmos. Da Goya a De Chirico, da Friedrich a Kiefer. L’arte alla scoperta dell’infinito. Milano 2000. Cat. Mostra Venezia- Palazzo Grassi 2000