12 Gen Sacro e pagano in Paolo Annibali
Intervista incontro di Lucilla Niccolini
Sono laiche divinità del quotidiano le protagoniste del frontone che domina la mostra “Dirà l’argilla. La mano, la terra, il sacro”: ragazze che non hanno parentela con dee greche, né con sante, ma appartengono alla nostra esperienza quotidiana, come le figure che si affacciano dalle metope che completano l’installazione scultorea al Museo Omero.
“Le ho fatte di terracotta, perché assomigliassero di più alle figure, umane perlopiù, che gli etruschi rappresentavano sulle loro tombe. Quasi a segnalare un mondo che non c’è più, un mondo di eroi, di ideali che non esistono più. Eppure… le loro vestigia parlanti sono ancora tra noi”. A parlare è Paolo Annibali, lo scultore sanbenedettese che ha avuto da Aldo Grassini la proposta di una personale al Museo Omero (fino al 15 febbraio). “Io ero malato in ospedale, e ci siamo incontrati, ci siamo capiti… soprattutto attorno a certi valori, quelli di un mondo migliore”.
Paolo Annibali rappresenta donne di una bellezza perfetta e serena: a rivendicare ancora il ruolo del bello nella crisi di valori attuale? “No – minimizza – volevo fare un racconto familiare di eroi minimi del presente, persone che non sono riconoscibili, che non hanno immagine. Nessun gesto epico, nessuna eroismo, tutto è nascosto, minimale”.
Quasi un rifugiarsi nella rappresentazione ellenistica dell’eroe quotidiano che non sarà mai sulle cronache, che vive le sue piccole ansie nel segreto della sua cameretta?
Annibali, mentre il vescovo contempla le metope e il frontone, rimane perplesso, finché Aldo Grassini non interviene, quasi scusandosi: “Io vedo della modernità in ciò, in questo pulviscolo disorientato che siamo tutti noi, come gusci di noce sballottati nell’oceano, e pure, proprio per questo, attaccati alle strutture razionali in cui vorremmo collocare l’esistenza. In fondo, creare statue di un frontone che non è mai esistito, per un tempio che non c’è, appartiene al bisogno di collocare l’esistenza in un tempio immaginario, di dare ordine alla molteplicità dell’esistenza, una scusa al nostro essere sulla Terra”.
Lo guardiamo stupefatti, per la chiarezza con cui questo professore non vedente riesce a vedere le opere.
Si riscuote per primo dalla sorpresa Paolo Annibali: “Forse anche per questo ho scelto la fragilità della terracotta per queste figure: sia per recuperare una radice italica, sia per dare il senso della loro mancanza di eternità, che dalla loro piccola esistenza passa alla materia”.
E adesso, che le sue opere sono qui sotto le capriate della Mole, non si sente un po’ più vuoto Annibali? Sogghigna brevemente: “Sto già pensando a un’altra grande scultura dedicata alla humana passio, allo strazio dell’uomo solo su questa Terra. L’idea mi è nata da una figuretta qui esposta: ha fatto caso al piccolo Adamo ripiegato su di sé sulla battigia…?”.
(tratto dall’articolo di Lucilla Niccolini, in Corriere Adriatico, 2 gennaio 2015)
info: Museo Omero
info: Gabriella Papini